MENTE ZEN di Shunryu Suzuki-Roshi

“Nella mente di principiante ci sono molte possibilità, in quella da

esperto poche”.

“Due Suzuki”

Mezzo secolo fa, con una trasposizione paragonata, per importanza storica, alle traduzioni in latino di Aristotele nel XIII secolo e di Platone nel XV, Daisetz Suzuki portò lo Zen in occidente.

Cinquanta anni dopo, Shunryu Suzuki ha compiuto un’opera altrettanto importante. In questo suo unico libro ha toccato proprio le corde più sensibili di chi in Occidente si interessi di Zen.

Mentre lo Zen di Daisetz Suzuki era straordinario, quello di Shunry Suzuki è ordinario. Il satori era fondamentale per Daisetz e fu in gran parte il fascino di questo stato prodigioso a rendere i suoi scritti così avvincenti. Nel libro di Shunryu Suzuky i termini satori e kensho, quest’ultimo quasi un sinonimo del primo, non compaiono mai.

Quando, quattro mesi prima della sua morte, ebbi l’opportunità di chiedergli perché mai il satori non figurasse nel suo libro, sua moglie si chinò verso di me e sussurrò maliziosamente: “Perché non l’ha mai avuto”; il Roshi le dette un colpetto col ventaglio, fingendosi costernato, e col dito sulle labbra nell’atto di zittire sibilò: “Shhhh! Non dirglielo!” Quando finimmo di ridere, disse semplicemente: “Non è che non sia importante, ma non è questo l’aspetto dello Zen da tenere in evidenza”.

Suzuki-roshi è stato con noi, in America, solamente dodici anni — un solo ciclo, secondo il criterio estremo-orientale di contare gli anni a dozzine — ma questo tempo è stato sufficiente. Grazie all’opera di questo piccolo, pacifico uomo, c’è ora nel nostro continente una fiorente scuola di Zen Soto.

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(il passo precedente è estratto dalla prefazione di Huston Smith a Mente Zen di Shunryu Suzuki-roshi)

 e ora la parola a Suzuki-Roshi

 “Nella mente di principiante ci sono molte possibilità, in quella da

esperto poche”.

La gente dice che praticare lo Zen è difficile, ma fraintende il perché. Lo Zen non è difficile perché è duro sedere con le gambe incrociate nella posizione del loto, o ottenere l’illuminazione. E’ difficile perché è arduo mantenere pura la nostra mente e pura la nostra pratica nel suo senso fondamentale. La scuola Zen si sviluppò in molte diramazioni dopo che si era stabilita in Cina, però divenne allo stesso tempo sempre più impura. Ma non è mia intenzione parlare dello Zen cinese o della storia dello Zen. Ciò che mi preme è aiutarvi a impedire che la vostra pratica si faccia impura.

In Giappone abbiamo un’espressione, shoshin, che significa ‘mente di principiante’. Il fine della pratica è sempre quello di conservare la nostra mente di principiante. Immaginate di recitare il Sutra della Prajna Paramita una volta sola. Sarebbe un’ottima recitazione. Ma che cosa vi accadrebbe recitandolo due, tre, quattro volte, o ancora di più? Con molta probabilità perdereste la vostra disposizione originaria nei suoi confronti. Lo stesso vi accadrà per le altre pratiche zen. Per un po’ conserverete la mente di principiante, ma, continuando a praticare per uno, due, tre anni o più, nonostante possiate ottenere qualche miglioramento, rischiate di perdere l’illimitato significato della mente originaria.

Per gli adepti zen la cosa più importante è non essere dualistici. La nostra ‘mente originaria’ racchiude tutto in sé. Dentro di sé è sempre ricca e autosufficiente. Non dovete perdere lo stato mentale di autosufficienza. Ciò non significa una mente chiusa, bensì una mente vuota e pronta. Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche.

Se discriminate troppo, vi limitate. Se siete troppo esigenti o avidi, la vostra mente non è ricca e autosufficiente. Perdendo l’originaria mente autosufficiente, perderemo tutti i nostri principi. Se la vostra mente si fa esigente, se bramate qualcosa, finirete per violare i vostri stessi principi: non mentire, non rubare, non uccidere, non essere immorali, e così via. Se conservate la vostra mente originaria, i principi si conserveranno da soli.

Nella mente di principiante non si trovano mai pensieri del tipo:

“Io ho ottenuto qualcosa”. Ogni pensiero egocentrico limita la nostra vasta mente. Quando non abbiamo alcun pensiero di conseguimento, alcun pensiero di un ‘sé’, allora siamo dei veri principianti. Allora possiamo realmente imparare qualcosa. La mente di principiante è la mente della compassione. Quando la nostra mente è compassionevole, diventa sconfinata. Dogen-zenji, il fondatore della nostra scuola, non cessava mai di sottolineare quanto sia importante riacquistare la nostra sconfinata mente originaria. Allora siamo sempre veri di fronte a noi stessi, in armoniosa assonanza con tutti gli esseri, e possiamo attuare sul serio la nostra pratica.

Dunque la cosa più importante è conservare sempre la mente di principiante. Non c’è alcun bisogno di possedere una profonda conoscenza dello Zen. Anche se leggete molta letteratura zen, ogni passo va letto con mente fresca. Non dovreste dire: “So che cos’è lo Zen”, oppure “Ho raggiunto l’illuminazione”. È questo anche il vero segreto dell’arte: essere sempre un principiante. Mi raccomando, state molto attenti a questo punto. Se cominciate a praticare zazen, comincerete ad apprezzare la vostra mente di principiante. È il segreto della pratica zen.

 

 

Lucidare una piastrella

“Quando voi diventate voi, lo Zen diventa Zen. Quando voi siete voi, vedete le cose così come sono e diventate tutt’uno con ciò che vi circonda”

 

Le storie zen, o koan, sono difficilmente comprensibili se non sapete che cosa stiamo facendo attimo per attimo. Ma, se sapete esattamente che cosa stiamo facendo ad ogni istante, non troverete i koan così difficili. I koan sono tanti. Vi ho spesso parlato di una rana, e alla fine ogni volta tutti si mettono a ridere. Ma una rana è molto interessante. E per giunta siede come noi, lo sapete. Però non pensa di fare assolutamente niente di speciale. Mentre può darsi che voi, quardo entrate nello zendo e sedete in meditazione, crediate di fare qualcosa di straordinario. Dopotutto, vostro marito o vostra moglie se ne stanno a dormire, mentre voi invece fate zazen! Voi sì che state facendo qualcosa di straordinario, e i vostri cari sono pigri! Può darsi che intendiate in questo modo lo zazen. Ma guardate la rana. Anche una rana sta seduta come noi, ma non ha alcuna idea dello zazen. Osservatela. Se qualcosa la disturba fa una smorfia. Se le passa vicino qualcosa di commestibile, lo afferra e lo mangia, sempre restando seduta. Ecco qual’è effettivamente il nostro zazen: assolutamente niente di speciale.

Ecco una specie di koan per voi, come quello della rana. Baso fu un famoso maestro zen chiamato il ‘Signore del Cavallo’. Fu discepolo di Nangaku, a sua volta uno dei discepoli del Sesto Patriarca. Un giorno, nel periodo in cui svolgeva i suoi studi sotto la guida di  Nangaku, Baso se ne stava seduto a fare zazen. Aveva una massiccia costituzione fisica; quando parlava, la lingua gli arrivava al naso; aveva una voce tonante, e il suo zazen doveva andare molto bene. Nangaku lo vide che se ne stava seduto come una grande montagna. Nangaku domandò: “Che cosa stai facendo?”. “Faccio zazen” rispose Baso. “E perché fai zazen? “. “Voglio raggiungere  l’illuminazione; voglio essere un Buddha”, disse il discepolo. Sapete che cosa fece il maestro? Raccolse una piastrella e prese a lucidarla. In Giappone, dopo aver tirato fuori le piastrelle dal forno, le luci diamo per dar loro una bella rifinitura. Nangaku raccolse dunque una piastrella e prese a lucidarla. Il discepolo Baso domandò: “Che cosa stai facendo?”. “Voglio trasformare questa piastrella in un gioiello”, rispose Nangaku. “Ma come è possibile”, chiese Baso, “trasformare una piastrella in un gioiello?”. “E come è possibile”, replicò Nangaku, “facendo zazen, diventare un Buddha? Vuoi ottenere la Buddhità? Non esiste Buddhjtà al di là della tua mente ordinaria. Se un carro non va, chi frusti, il carro o il cavallo?”, chiese il maestro.

Ciò che Nangaku vuole dire qui è che, qualsiasi cosa facciate, è zazen. Il vero Zazen è al di là dello stare a letto o seduti in meditazione nello zendo. Se vostro marito o vostra moglie sta a letto, quello è zazen. Se pensate “Io ‘sto qui seduto in meditazione e mia moglie (o mio marito) è a letto”, allora, anche se ve ne state seduti qui nella posizione del loto, a gambe incrociate, non si tratta di vero zazen.

Dovete sempre essere come una rana. Ecco il vero zazen.

Dogen-zenjj commentò questo koan, dicendo: “Quando il ‘Signore del Cavallo’ diviene il ‘Signore del Cavallo’, lo Zen diventa Zen” Quando Baso diventa Baso, il suo zazen diventa vero zazen, e lo Zen diventa Zen. Qual è il vero zazen? Quando voi diventate voi stessi Quando voi siete voi, allora qualsiasi cosa facciate, non importa cosa è zazen. Anche se state a letto, può darsi che non siate voi stessi per la maggior parte del tempo. Persino quando sedete in meditazione nello zendo, mi domando se siete veramente voi stessi.

Ed ecco un altro famoso koan.

 Zuikan era un maestro zen che aveva l’abitudine di rivolgersi sempre a se stesso. “Zuikan? “, chiamava. E poi rispondeva: “Eccomi! “. “Zuikan? “. “Eccomi! “. Naturalmente viveva tutto solo nel suo piccolo zendo, e conosceva bene la propria identità, ma a volte gli capitava di perdere se stesso. E ogni qualvolta perdeva se stesso, si chiamava: “Zuikan?“. “Eccomi! “.

Se siamo come una rana, siamo sempre noi stessi. Ma persino un rana a volte perde se stessa, e allora fa una brutta smorfia. E se qualcosa le passa accanto, lo afferra e mangia. Perciò credo che una rana stia sempre a chiamarsi. E penso che anche voi dovreste farlo. Persino nello zazen può capitare che perdiate voi stessi. Quando vi prende il sonno, oppure la mente comincia a vagare qua e là, perdete voi stessi. Quando cominciano a farvi male le gambe — “Perché ho tanto dolore alle gambe?” — perdete voi stessi. Siccome perdete voi stessi, il vostro problema diverrà un vero problema per voi. Se non perdete voi stessi, allora, anche se avete delle difficoltà, in effetti non c’è alcun problema di sorta. Non fate altro che sedere nel mezzo del problema; quando voi siete una parte del problema, o il problema è una parte di voi, non c’è alcun problema, perché voi siete il problema stesso. Il problema si identifica con voi stessi. Quand’è così, non c’è alcun problema.

Quando la vostra vita è una parte di ciò che vi circonda — quando, in altri termini, siete richiamati a voi stessi, nel momento presente — allora non c’è problema. Quando cominciate a girare intorno a un’illusione, che è qualcos’altro da voi, allora ciò che vi circonda non è più reale, e neppure la vostra mente lo è più. Se siete in preda all’illusione, allora anche ciò che vi circonda diventa una vaga, nebulosa illusione. Una volta immersi nell’illusione, non finisce più. Sarete invischiati in un susseguirsi continuo di idee sempre più illusorie.  La maggior parte della gente vive nell’illusione, invischiata nel proprio problema, cercando di risolverlo. Ma il fatto puro e semplice di vivere è già di per sé vivere in problemi. E risolvere il problema è far parte di esso, essere tutt’uno con esso.

Chi colpisci, dunque, il carro o il cavallo? Chi colpisci, te stesso o i tuoi problemi? Se cominciate a farvi un problema di chi colpire, significa che avete già cominciato a girarci intorno. Ma quando colpite davvero il cavallo, il carro avanza. In verità, carro e cavallo non sono differenti. Quando voi siete voi, non c’è problema se si debba colpire il carro o il cavallo. Quando voi siete voi, lo zazen diventa il vostro zazen. Quindi, quando fate zazen, il vostro problema farà zazen, e ogni altra cosa farà zazen. Anche se i vostri cari stanno a letto, pure loro faranno zazen — quando voi fate zazen! Ma quando non praticate il vero zazen, allora da una parte vi sono i vostri cari, dall’altra ci siete voi, ciascuno completamente distinto, completamente separato dall’altro. Se voi dunque attuate la vera pratica, allora qualsiasi altra cosa parteciperà nel contempo alla pratica della vostra via.

È per questo che dobbiamo sempre richiamarci a noi stessi, controllandoci come un medico che si ausculta. Ciò è importante. Questo genere di pratica si dovrebbe attuare di continuo, attimo per attimo, incessantemente. Noi diciamo: «Quando è notte, viene l’alba”. Significa che non c’è soluzione di continuità fra l’alba e la notte. Prima che l’estate sia finita, viene l’autunno. Così va intesa la vita. Bisogna praticare con questo intendimento e in questo modo risolvere i propri problemi. In effetti, basta solamente lavorare sul problema, se lo fate con impegno costante. Non dovete far altro che lustrare la piastrella; ecco la nostra pratica. Scopo della pratica non è trasformare una piastrella in un gioiello. Continuate a sedere in meditazione e basta; ecco la pratica nel senso più vero. La questione non è se sia possibile o no ottenere la Buddhità, se sia possibile o no trasformare una piastrella in un gioiello. Lavorare e vivere in questo mondo con tale intendimento e nulla più: ecco la cosa più importante. Ecco la nostra pratica. Ecco il vero zazen. Perciò noi diciamo: “Quando mangi, mangia! “. Dovete mangiare quello che c’è, naturalmente. Talvolta non lo mangiate. Anche se state mangiando, la vostra mente è altrove. Non gustate ciò che avete in bocca. Finché siete capaci di mangiare quando mangiate, tutto va bene. Non c’è da preoccuparsi. Significa che voi siete voi stessi.

Quando voi siete voi stessi, vedete le cose così come sono, e diventate tutt’uno con ciò che vi circonda. Lì si trova il vostro vero sé. Lì possedete la vera pratica; possedete la pratica di una rana. Ecco un buon esempio della nostra pratica — quando una rana diventa una rana, io Zen diventa Zen. Quando comprendete una rana da cima a fondo, ottenete l’illuminazione; siete Buddha. E andate anche bene per gli altri: marito o moglie, figlio o figlia. Questo è zazen!